Storia di un ponte senza ponte


Il ponte non c'è mai stato e probabilmente non ci sarà. C'è invece una “narrazione” del ponte, un modello culturale che si vuole imporre. Fatto di drenaggio di risorse pubbliche in favore di interessi privati, di esautoramento delle volontà locali e di devastazione ambientale. Intervista ad Antonio Mazzeo e Luigi Sturniolo di Pippo Gurrieri.


Qual è lo stato attuale della questione ponte? Può definirsi chiusa o solo sospesa? Sono prevedibili scenari futuri, anche alla luce dell'ambiguità del governo Renzi e degli annunci di Alfano e Patuelli?

Il Ponte non c'è mai stato, non c'è, né ci sarà. Esiste invece una “narrazione” del Ponte, quella sì che continua ad esistere, strumentalmente riesumata, una volta dalle imprese General contractor (contraenti), un'altra da qualche soggetto politico.

Il fine rimane l'imporre il modello “culturale” dominante delle Grandi Opere, la depauperazione delle sempre più ridotte risorse pubbliche a favore degli interessi dei grandi gruppi economico-finanziari privati, l'esautoramento delle volontà popolari locali e dei soggetti amministrativi che dovrebbero governare i territori, il saccheggio urbanistico e la devastazione ambientale.
Per ritentare la narrazione del Ponte c'è chi sfrutta ovviamente la crisi socio-economica (quella generata dal modello neoliberista imperante), gli alti tassi di disoccupazione generale, la precarietà delle vite di milioni di persone, il falso spauracchio delle “penali” (si arriva a parlare perfino di un miliardo di euro che lo Stato dovrebbe rimborsare al pool di società vincitrici della gara per la progettazione ed esecuzione dell'ecomostro sullo Stretto). Si tace, invece, sul fatto che la politica delle Grandi Opere è caratterizzata in larga misura da progetti senza opera, senza cantieri, senza lavoratori.
Sulle “penali” abbiamo ripetuto per anni che sarebbe stato doveroso porre nelle sedi istituzionali la questione della loro legittimità. Comunque ricordiamo che esse potevano essere prese in considerazione solo dopo l'approvazione da parte del CIPE (comitato interministeriale per la programmazione economica) del progetto definitivo ed esecutivo del Ponte. Evento, che sino ad oggi non risulta essersi mai verificato.

Resta comunque forte il rischio che si possa dare il via al Ponte senza Ponte, dirottando l'ammontare delle presunte “penali” per la realizzazione della sterminata lista di opere pseudo-compensative che amministratori, studi di progettazione e potentati economici locali hanno strappato in cambio del loro sì o dei loro “nì” alla costruzione del manufatto. Una lista che di tanto in tanto ritorna in vita anche per bocca di alcuni di quei soggetti che sono stati attivi nel movimento No Ponte. Pensiamo, ad esempio, all'amministrazione comunale di Messina del sindaco Renato Accorinti che ha ottenuto l'inserimento nel cosiddetto Masterplan della città metropolitana (l'ennesima lista di opere in buona parte inutili o altamente impattanti per l'ambiente e il territorio che sono riproposte ad ogni buona occasione per strappare consensi o fomentare clientele) del Piano di “riqualificazione” dell'area di Capo Peloro, un progetto risalente al 1999, funzionale alla cementificazione della fragile costa e alla privatizzazione delle spiagge, realizzato dallo studio di cui è co-titolare l'odierno assessore all'Urbanistica e ai lavori pubblici, l'ingegnere Sergio de Cola, e che era stato inserito dal General contractor tra le opere da realizzare con i fondi compensativi e che successivamente, la stessa amministrazione Accorinti “No Ponte” aveva chiesto di finanziare attingendo alle (ex) risorse pro-Ponte.

Le vicende relative alla “narrazione” delle penali e alla stessa regolarità della gara per l'identificazione del General contractor sono piene di ambiguità, colpi di scena, eventi su cui avrebbe fatto bene ad indagare la stessa autorità giudiziaria. In passato abbiamo ricostruito le innumerevoli zone d'ombra di quella che continuiamo a ritenere una delle opere “immaginarie” su cui la borghesia mafiosa locale e internazionale ha più puntato.

Recentemente si è tornato a parlare del pressing che le grandi società di costruzione hanno esercitato sul governo e il parlamento per capitalizzare perlomeno le risorse fittiziamente destinate alle “penali”. La Procura di Reggio Calabria, nel corso di un'indagine, ha acquisito i tabulati delle telefonate intercettate alla fine del 2012 alla storica portavoce dell'ex ministro Maroni, odierno presidente della regione Lombardia, nelle quali l'amministratore delegato del gruppo Salini, oggi al controllo del colosso Impregilo, chiedeva con insistenza che la Lega impedisse l'approvazione del decreto Monti che “riduceva” l'ammontare delle penali al mero pagamento dei costi reali di progettazione.

Come si è giunti all'attuale situazione? È stata tutta “colpa” delle lotte o anche della situazione economica in cui si dibatte l'Italia?

Sarebbe del tutto storicamente ingiusto e ingeneroso non riconoscere il ruolo, la determinazione, la forza e le capacità di mobilitazione e analisi del Movimento No Ponte e come le sue campagne di lotta siano state determinanti per “chiudere” almeno sino ad oggi la partita sul Mostro dello Stretto.
Certo, l'esplosione della crisi, congiuntamente ad altri eventi che hanno segnato la recente visita economica nazionale e internazionale (le politiche di aggiustamento strutturale Ue, le dimensioni del debito pubblico, le distorsioni anche criminali generate dalle Grandi Opere e dallo stesso modello di project financing e intervento dei “privati”, ecc.) hanno contribuito alla sconfitta del pensiero unico del Ponte. In particolare, è risultato sempre più indifendibile il Piano Finanziario del Ponte, basato su previsioni di attraversamento clamorosamente contraddette dall'esperienza empirica.
Crediamo, comunque, che vada difesa sino in fondo la straordinaria esperienza messa in campo per oltre 15 anni dalle variegate realtà che hanno contribuito al Movimento. Forse, oggi, col senno del poi, potremmo affermare di aver sopravvalutato i rapporti di forza all'interno delle diverse soggettività che hanno caratterizzato il fronte del No, anch'esso – come i movimenti che tradizionalmente si sono opposti in Italia alle Grandi Opere e ai processi di militarizzazione del territorio – contraddistinto dal pluralismo politico-sociale e di classe. Forse, cioè, abbiamo peccato nella convinzione che le ragioni nostre, quelle delle aree più radicali e antagoniste, fossero pienamente condivise finanche dalla borghesia locale “illuminata” schieratasi contro il Ponte. Si è trattato di un errore di valutazione che stiamo pagando pesantemente oggi con l'esperienza dell'amministrazione Accorinti a Messina, un'elezione avvenuta grazie alla lotta No Ponte ma senza le ragioni, la visione altra e i protagonisti veri della lotta No Ponte.

Parlaci della Società Stretti di Messina, per anni una centrale di potere e di propaganda pontista, ha divorato milioni (quanti?) e non ha prodotto nulla. Perché? Grazie a chi?

Sì la Società Stretto di Messina, per lunghi anni è stata allo stesso tempo divoratrice di ingentissime risorse finanziarie (oltre 300-350 milioni di euro sperperati per l'affidamento di studi di massima, più altri 8-9 milioni all'anno in stipendi e inutili uffici di rappresentanza), strumento di propaganda e imposizione del consenso, finanche cimitero degli elefanti per quei politici trombati da lunga data. Una società-affaire funzionale al capitale bancario e finanziario che controlla le grandi società di costruzioni e i cui consigli di amministrazione sono seme e frutto dei legami mai recisi tra politica e imprenditoria, con le conseguenze e le storture – vedi in particolare i capitoli relativi alla gestione delle risorse e delle spese – che abbiamo conosciuto e denunciato in tutti questi anni.

Com'è cominciata la lotta No Ponte; raccontaci alcuni momenti salienti.

Ricordiamo ancora, a metà anni '80 un primo incontro-dibattito promosso da Democrazia proletaria e dal Comitato Messinese per la pace e il disarmo unilaterale in cui un manipolo di attivisti e un paio di sociologi dell'Università di Messina espressero il proprio No incondizionato a un'opera-immagine che iniziava a fare da protagonista nel dibattito politico-amministrativo della città, con il consenso unanime delle forze politiche (PCI in testa), delle organizzazioni sindacali e dell'associazionismo in genere.

Bisognerà però attendere la seconda metà degli anni '90 perché il tema venisse seriamente discusso tra le aree di movimento, la sinistra radicale e le associazioni ambientaliste. Ovviamente quando l'utopia Ponte divenne il progetto centrale della borghesia imprenditoriale locale e interregionale, sostenuto da quasi tutti i partiti e dalle amministrazioni locali di centrodestra e centrosinistra e ben oleato e sponsorizzato dai quotidiani e dalle emittenti televisive locali (fino alla cooptazione del loro direttore alla guida della Società Stretto di Messina Spa), si iniziarono a sviluppare reti di confronto e dibattito tra le realtà che nelle due sponde dello Stretto iniziavano a prendere coscienza dell'insostenibilità socio-economica e ambientale del Ponte e del modello stesso delle Grandi opere sostenuto dal neoliberismo. Ambientalisti, centri sociali autogestiti, militanti No Global e No War, alcune mosche bianche delle Università calabresi e di Messina, il sindacalismo di base, i Verdi, prima alcuni iscritti poi tutto il Prc, collettivi di anarchici, ex occupanti delle Università contro i piani di privatizzazione del sapere, ecc., diedero vita a forme di coordinamento dal basso copromuovendo campagne di sensibilizzazione, le prime manifestazioni con cortei e i campeggi estivi No Ponte, certamente queste ultime tra le esperienze che più hanno contribuito alla crescita della mobilitazione generale e alla presa di coscienza di sempre più ampie fasce di popolazione locale.
Così sino all'affermazione - nei primi anni del 2000 - del Movimento No Ponte come uno dei soggetti politici più rilevanti nel panorama delle lotte dal basso, con capacità di mobilitazione e di consenso ormai sempre più rare nella recente storia del Sud Italia.

La svolta del Movimento avviene nel 2002. È l'anno del primo campeggio No Ponte. Ne seguiranno altri due, su entrambe le sponde, nei due anni successivi. I campeggi segnano il passaggio dal movimento d'opinione alla mobilitazione di piazza. Siamo negli anni di quello che viene definito movimento no global e a Messina si è reduci dalla mobilitazione contro l'attraversamento della città da parte dei Tir. La prima manifestazione, che si svolge al termine del primo campeggio, vede la partecipazione di centinaia di persone. Ne seguiranno tante altre, fino a culminare nel corteo del gennaio 2006, formato da circa 20.000 persone, con delegazioni provenienti da molte città italiane. Importante la presenza di 300 attivisti No Tav che aprono il corteo. Sono gli anni del massimo fulgore della Legge Obiettivo e l'analisi del movimento, che va ben al di là di una opposizione di carattere meramente ambientalista, è capace di dare una lettura politica della speculazione finanziaria e della trasformazione in senso autoritario dei meccanismi di realizzazione delle opere pubbliche.
L'ascesa al governo del centrosinistra e di Prodi mette il Ponte in stand-by. Sarà il nuovo governo Berlusconi a rilanciarne il progetto. Ripartono, quindi, nel 2009, le manifestazioni. L'ultima di queste, a ponte ormai bloccato, avrà come piattaforma il rifiuto del riconoscimento delle penali alla società Impregilo. Siamo, praticamente, alla fase attuale. Intanto la Rete No Ponte a Messina è diventata un'aggregazione politica che va oltre il tema della lotta contro il Mostro sullo Stretto e produce una generazione di giovani attivisti che saranno i protagonisti della nuova fase del Movimento. Di certo quella esperienza è alla base di quello che si muoverà poi intorno alla categoria dei beni comuni e avrà influenze importanti sull'esperienza elettorale di Renato Accorinti e Cambiamo Messina dal Basso.


Ci sono stati momenti in cui si profilava una sconfitta?

Siamo stati sempre consapevoli della disparità di forze in campo tra il Movimento No Ponte e i gruppi finanziari, bancari, industriali e politici che per decenni hanno rappresentato il fronte pontista, ma non crediamo che le preoccupazioni nostre fossero determinate dalla possibilità che alla fine l'Ecomostro dello Stretto venisse alla luce, quanto invece che si sarebbero potuto avviare le opere “propedeutiche” alla realizzazione dell'opera, o quelle ad esempio, cinicamente presentate come “compensative” delle amministrazioni locali, in concreto cioè le devastanti arterie stradali e ferroviarie di collegamento nel messinese e in Calabria, lo sventramento delle colline a monte, la movimentazione di milioni di metri cubi di terra, la cementificazione delle aree sopravvissute all'urbanizzazione selvaggia dei territori, ecc.

Stiamo parlando di quel Ponte senza Ponte che descrivevamo prima, in linea con il modello della progettazione per la progettazione che ha segnato la storia del manufatto-fantasma, prorogando all'infinito il saccheggio di enormi risorse pubbliche da parte dei Padrini del Ponte. Non abbiamo creduto cioè, mai, che il Ponte fosse realizzabile (per ovvi motivi di ordine strutturale-ingegneristico, economico, ecc.) ma abbiamo sempre temuto che i disegni e i progetti meramente speculativi e fortemente impattanti dal punto di vista sociale e ambientale che ruotano attorno al “Ponte” – mai contrastati del resto da quelle aree di borghesia “illuminata” che a parole si sono schierate contro – possano andare avanti ancora.

Qual è stato il rapporto tra movimento e popolazione (messinese, calabrese, siciliana)?

Il Movimento No Ponte ha avuto una dimensione consistente, ma non è mai diventato davvero popolare. Le manifestazioni calabresi sono state prevalentemente partecipate da attivisti. A Messina c'è stato un maggiore coinvolgimento della cittadinanza, ma questo ha riguardato soprattutto le fasce, prevalentemente giovanili, più scolarizzate, del centro cittadino e della zona di Torre Faro (dove era prevista la torre del lato messinese). Per quanto almeno la parte più radicale abbia provato a legare i temi sociali alla battaglia No Ponte, in realtà non si è mai riusciti a coinvolgere gli strati più poveri e le periferie. Da indagare sarà, soprattutto per le prossime esperienze delle lotte in difesa del territorio, la componente più nimby, che è stata di sicuro presente anche nell'esperienza messinese. Così come da indagare sarà il tema della difesa della proprietà dalla devastazione della grande opera. Solo dimostrando che la grande opera non è opera pubblica sarà possibile non cadere, cioè, nella contraddizione della difesa della villetta, magari del ricco locale, contro l'opera infrastrutturale.

Parlaci del ruolo di tecnici e scienziati nella costruzione dell'opposizione al Ponte

Come in qualsiasi relazione dialettica tra soggettività differenti (“esperti”, “tecnici” e “accademici” da una parte, attivisti e movimentisti dall'altra), le relazioni sono state complesse, talvolta tormentate (specie quando i primi tentavano di far pesare il loro ruolo nella fissazione degli obiettivi a breve e medio termine della mobilitazione o a proporsi loro stessi alla “guida” delle campagne), ma comunque alla fine determinanti per la crescita qualitativa delle analisi e delle ragioni del “No”. Certamente va riconosciuto ai “tecnici” un ruolo decisivo sul fronte più prettamente “formale” nel Movimento No Ponte, nella predisposizione ad esempio delle centinaia di osservazioni ingegneristiche, socioeconomiche, ambientali per sbugiardare la presunta sostenibilità del manufatto, dell'intero modello delle Grandi Opere e dello strumento del General contractor.
Tuttavia c'è un ruolo “scientifico” che va riconosciuto anche a soggettività più meramente movimentiste. Non è un caso che alcune delle pubblicazioni di tipo documentale-informativo e la predisposizione di archivi e siti internet specializzati, ampiamente utilizzati nelle campagne di controinformazione con la popolazione, siano stati autoprodotti da attivisti e magari pubblicati da case editrici di movimento (pensiamo ad esempio a Terrelibere.org e Sicilia Punto L degli anarchici ragusani). Nonostante cioè le ovvie tensioni, si sono creati circuiti di reciproca alimentazione tra “tecnici” e “attivisti”, che ha avuto effetti importanti anche dal punto di vista dell'uso e della contaminazione dei distinti linguaggi e, ovviamente, per l'esito delle campagne di lotta.

Come si è sviluppato il rapporto del movimento No Ponte con altre realtà di lotta sia in Sicilia sia “in continente”?

La presenza delle realtà politiche esterne all'area dello Stretto è stata decisiva soprattutto nella fase iniziale delle mobilitazioni. Senza la Rete del Sud Ribelle il primo campeggio non si sarebbe neanche svolto, ma anche successivamente gli attivisti esterni che hanno generosamente portato il loro contributo alla lotta (pensiamo ad esempio ai No Tav) sono stati importantissimi, sia nel numero che nelle sollecitazioni dal punto di vista dell'analisi. Migliaia di compagni hanno partecipato a campeggi e cortei. Alcune centinaia di questi sono tornati ripetutamente. Se un limite c'è stato, forse questo è consistito nel non essere riusciti ad approfittare di questa “occasione” per costruire una vera rete di realtà capace di una forte battaglia generale contro la Legge Obiettivo e la strategia delle Grandi Opere. Si fosse realizzata quella, forse saremmo stati in grado di reggere, poi, successivamente, anche all'avanzata dei processi di privatizzazione dei beni comuni e dei servizi pubblici locali.

Esistono ancora oggi le condizioni per una eventuale ripresa della mobilitazione?

A Ponte fermo è difficile ipotizzare una mobilitazione. Il tema delle penali è fondamentale, ma, evidentemente, non è capace di stimolare una larga partecipazione. Purtroppo, bisogna registrare che la diffusione della lotta continua ad essere più semplice quando il processo di devastazione del territorio appare più evidente, con l'apertura dei cantieri o la formalizzazione dei progetti. È di certo un limite dei movimenti non essere capaci di far capire quanto una politica delle infrastrutture che genera pochi cantieri e mobilita pochi lavoratori dilapidi in realtà ingenti quantità di denaro pubblico che andrebbero usate per opere prossime ai cittadini.

Sarà questa, noi riteniamo, la scommessa dei futuri movimenti territoriali.
Intervista a cura di Pippo Gurrieri, pubblicata in A Rivista Anarchica, n. 407, maggio 2016, http://arivista.org/?nr=407&pag=51.htm

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