La Corleone del XXI secolo


Centro della fascia tirrenica della provincia di Messina, Barcellona Pozzo di Gotto è culla di boss mafiosi in contatto con pezzi della massoneria e dei servizi segreti deviati e anche di alcuni garanti dell’impunità e del depistaggio istituzionale. Più di un filone investigativo converge sulla città, crocevia di poteri più o meno occulti e laboratorio sperimentale per le alleanze di quella che è stata la Seconda Repubblica.

 

Sui presunti registi e intermediari della trattativa tra Stato e Antistato girano nomi eccellenti. Alcuni sono deceduti e non potranno fornire chiarimenti né difendersi. I Pm di Palermo nutrono forti sospetti sull’allora capo della polizia Vincenzo Parisi. E sull’alto dirigente del Sisde, il servizio segreto civile, Bruno Contrada. Nella black list c’è pure l’ex capo dei Ros dei Carabinieri e direttore del Sisde, Mario Mori. O sull’ex ministro Calogero Mannino che, secondo gli inquirenti, avrebbe esercitato “indebite pressioni finalizzate a condizionare in senso favorevole a detenuti mafiosi la concreta applicazione del 41bis”.

Il mistero del 41 bis

Nel novembre ’93, fu deciso di non rinnovare il carcere duro a 326 mafiosi, 45 dei quali ai vertici di Cosa nostra, ‘ndrangheta, Camorra e Sacra corona unita.

Gli inquirenti ipotizzano che tra i consiglieri dell’ammorbidimento del regime detentivo nei confronti della criminalità organizzata c’era l’allora vicecapo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) Francesco Di Maggio, il magistrato tutto d’un pezzo scomparso prematuramente nel 1996, noto per l’inchiesta sulla scalata criminale di Angelo Epaminonda “il Tebano”, re delle bische e della droga di Milano, convertitosi in collaboratore di giustizia. Dopo un breve e travagliato periodo all’Alto commissariato antimafia, Di Maggio aveva preferito trasferirsi a Vienna per fare da consulente giuridico dell’agenzia antidroga delle Nazioni Unite. Poi, nel ’93, inaspettatamente, veniva chiamato a Roma per assumere l’incarico di supervisore delle carceri italiane. Ciò ha insospettito i Pm palermitani: senza alcuna competenza specifica per quel ruolo, Di Maggio non era magistrato di corte d’appello, titolo richiesto dalla legge. Per aggirare l’ostacolo fu nominato consigliere di Stato. Chi e perché lo volle alla guida del Dap? “L’ho scelto io”, ha spiegato l’ex Guardasigilli Giovanni Conso. “Era una persona che andava un po’ in televisione, un combattivo, e mi era parso molto efficace”. Di diverso parere l’allora capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Adalberto Capriotti. “Ebbi l’impressione che a Conso, a sua volta, Di Maggio gli fu imposto”, ha raccontato. E i rapporti tra il ministro e il magistrato erano tutt’altro che idilliaci. “Una volta ho assistito a una violentissima lite tra i due”, ha aggiunto. “Mi misi di mezzo perché Di Maggio, oltre a dargli del tu, insultava Conso e io non potevo permetterlo…”.    

Il 29 ottobre 1993, Capriotti aveva sottoscritto una nota inviata al ministero della Giustizia. Nel documento si suggeriva di fare scadere i termini di carcere duro (41 bis) per oltre trecento mafiosi considerati di media pericolosità e ridurre del 10% i provvedimenti di carcere duro per i boss irriducibili. Il tutto nell’ottica di “creare un clima positivo di distensione nelle carceri”, spiegava il capo del Dap. La nota fu poi consegnata a Conso dall’allora capo di gabinetto del ministero, Livia Pomodoro (attuale presidente del Tribunale di Milano), che racconta: “Il ministro mi diede la direttiva di attendere ulteriori aggiornamenti, che avrebbero dovuto essere forniti dal vicecapo Di Maggio”. A questa dichiarazione si aggiunge quella che lo stesso Capriotti rilasciò ai pm che stanno indagando sulla trattativa Stato-mafia, facendo presente che, quando si insediò, il documento era già pronto, predisposto dal suo vice Di Maggio. Quello stesso Di Maggio che in un’intervista in piena stagione terroristica si era dichiarato “decisamente a favore” del carcere duro per i mafiosi. “Era ritenuto un forcaiolo al Dap perché voleva mantenere il 41bis, ma riteneva che la sua linea fosse disattesa dal Ministero degli Interni”, ha rivendicato il fratello, Salvatore Di Maggio, all’udienza del 19 ottobre 2012 del processo che vede imputati il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra dopo la mancata cattura del superboss Bernardo Provenzano nel 1995.

A rendere più fitto il mistero è spuntato un vecchio verbale d’interrogatorio di Nicola Cristella, ex caposcorta di Francesco Di Maggio. Cristella avrebbe dichiarato che nell’estate delle bombe del ’93, il magistrato era solito cenare con il giornalista Guglielmo Sasinini, poi finito sotto inchiesta per i dossier illegali di Telecom, l’immancabile generale-prefetto Mori e il colonnello dei carabinieri Umberto Bonaventura, morto nel 2002 per arresto cardiocircolatorio. Figlio del capocentro del Sifar (Servizio informazioni forze armate) a Palermo fra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, Bonaventura era stato prima membro dei nuclei antiterrorismo del generale dalla Chiesa, poi capo della 1^ divisione del Sismi, il servizio segreto militare subentrato al Sifar. Cene inopportune. Inquietanti.

A confermare la relazione privilegiata tra Mario Mori e il giudice Di Maggio un’annotazione nell’agenda personale del militare, alla data del 27 luglio 1993, vigilia della notte in cui esplosero tre autobombe: la prima a Milano e le altre due a Roma, a San Giovanni in Laterano e davanti alla chiesa di San Giorgio al Velabro. “Per prob. detenuti mafiosi” c’è scritto in riferimento ad un appuntamento fissato quel giorno con Di Maggio. Cinque mesi prima, la mattina del 27 febbraio, presso la Sezione Anticrimine di Roma, Mori aveva incontrato il magistrato (ancora consulente dell’agenzia antidroga dell’Onu) per discutere sull’omicidio del giornalista de La Sicilia Beppe Alfano, assassinato dalla mafia l’8 gennaio 1993 a Barcellona Pozzo di Gotto. E da quanto accertato dal Pm di Firenze, Gabriele Chelazzi, stroncato da un infarto il 17 aprile 2003, Di Maggio e Mori s’incontrarono nuovamente il 22 ottobre, congiuntamente all’allora colonnello Giampaolo Ganzer, poi comandante del Ros, condannato il 12 luglio 2010 dal Tribunale di Milano a quattordici anni di reclusione e 65 mila euro di multa per traffico di stupefacenti, falso e peculato, ma assolto dall’accusa di associazione a delinquere. Il 24 settembre 2012 è iniziato il secondo grado di giudizio. Il sostituto procuratore di Milano Annunziato Ciaravolo, nel corso dell’udienza del 9 novembre, ha chiesto 25 anni di reclusione per l’ex generale Ganzer. Il processo è attualmente in corso.

Le contraddizioni di Barcellona

Come Beppe Alfano, anche Francesco Di Maggio era originario di Barcellona, centro della fascia tirrenica della provincia di Messina. E barcellonesi sono pure alcuni dei padrini in odor di massoneria e servizi segreti deviati entrati a pieno titolo nelle cronache nere italiane di quegli anni o certi strani garanti dell’impunità e del depistaggio istituzionale. Mere coincidenze, forse. Ma a Barcellona convergono e s’incrociano più di un filo investigativo, troppi attori, programmi eversivi, esplosivi e telecomandi. La città è crocevia di poteri più o meno occulti, laboratorio sperimentale per le alleanze della Seconda Repubblica, centro strategico di traffici di droga ed armi, eldorado delle ecomafie, ponte-cerniera tra organizzazioni criminali siciliane, ‘ndrangheta, camorra ed estrema destra. Un paradiso dorato per i latitanti di primo livello, come Bernando Provenzano, Pietro Aglieri e Benedetto Santapaola.

Una Corleone del XXI secolo dove campieri, ex vivaisti e piccoli allevatori semianalfabeti hanno imposto il proprio dominio agli eredi di una borghesia locale consociativa e parassitaria. Una colonia di cosche efferate, sanguinarie, predatrici. I vincitori e i perdenti di una guerra che negli anni ’80 ha lasciato sul campo un centinaio di morti e una decina di desaparecidos. Omicidi brutali, corpi arsi vivi nei greti dei torrenti, minorenni torturati e sgozzati, arti mozzati. Il devastante saccheggio delle risorse di un territorio unico per bellezze e tradizioni; la capacità d’infiltrazione in ogni livello delle istituzioni. Mafia finanziaria e imprenditrice, onnipresente nella gestione delle opere pubbliche e private, dai lavori ferroviari e autostradali sulla Messina-Palermo, alla discarica a cielo aperto di rifiuti di Mazzarrà Sant’Andrea, una delle più grandi del Mezzogiorno d’Italia, ai complessi turistici del golfo di Tindari e di Milazzo. E la bramosia d’impossessarsi del padre di tutte le Grandi infrastrutture, il Ponte sullo Stretto.

Ma Barcellona, come Corleone, interpreta il paradigma della complessità. Nonostante il consolidamento dello strapotere mafioso, in città è cresciuta in modo carsico una coscienza democratica e legalista tra i giovani, gli scout, il volontariato sociale, l’associazionismo culturale, qualche imprenditore di frontiera. Così come è cresciuto il bisogno di cambiamento, di rottura con l’immobilismo e l’ancien régime, con i vecchi patriarchi della politica e del potere. Per alcuni di essi è cominciato il declino. Alle elezioni amministrative della primavera 2012, a sorpresa, la candidata della società civile, Maria Teresa Collica, giovane ricercatrice universitaria, ha surclassato il candidato del centrodestra imposto da Domenico “Mimmo” Nania, barcellonese doc, vicepresidente Pdl del Senato nella scorsa legislatura (ma non candidato alle ultime elezioni), ex Giovane Italia, ex Msi, ex Alleanza nazionale, uno dei quattro “saggi” che hanno redatto il testo della nuova Costituzione votata in parlamento nel 2005 ma respinta referendariamente dal popolo italiano. Una sconfitta imprevedibile, in un Comune ritenuto blindato, inespugnabile, scampato due volte miracolosamente allo scioglimento per infiltrazione mafiosa. Amministrato per dieci anni dal sindaco Candeloro Nania, cugino di primo grado dell’ex senatore.

Altro dominus storico-istituzionale di Barcellona è il magistrato Antonio Franco Cassata – che alla fine di marzo ha lasciato l’incarico di Procuratore generale di Messina chiedendo il prepensionamento -, condannato il 24 gennaio 2013 dal Tribunale di Reggio Calabria a pagare una multa di 800 euro ritenendolo reo di “diffamazione” attraverso la diffusione di un dossier contro il docente universitario Adolfo Parmaliana, morto suicida l’1 ottobre 2008 dopo aver inutilmente lottato contro l’illegalità nella vita politico-amministrativa del Comune di Terme Vigliatore. “Anni prima, Parmaliana aveva inutilmente denunciato Cassata al Consiglio superiore della magistratura”, spiega Fabio Repici, legale della famiglia Parmaliana e grande conoscitore dello strapotere della borghesia mafiosa del Longano. “Non si è mai visto in Italia un processo a un alto magistrato per un dossier ai danni di una persona defunta, per di più con lo scopo di tentare di ostacolare la pubblicazione di un libro, Io che da morto vi parlo di Alfio Caruso, la storia di Adolfo, delle sue battaglie spesso solitarie, delle sue sconfitte, della sua morte e delle nefandezze compiute ai suoi danni”.

Lo scivolone giudiziario del Procuratore non sembra aver turbato le coscienze della Barcellona che conta. Cassata è uomo colto, affabile. Piace ascoltarlo e averlo come ospite ad un ricevimento, ad un incontro, ad un dibattito. È il perno di una fittissima rete di relazioni trasversali, sviluppatesi attorno al Circolo culturale “Corda Fratres”, l’officina che ha forgiato l’élite politica, sociale, economica e amministrativa locale. Della Fédération Internazionale des Etudiants Corda Fratres Consulat de Barcellona (questo il nome ufficiale) sono stati soci e dirigenti giudici, avvocati, insigni giuristi, poeti, scrittori, artisti, giornalisti, diplomatici, militari, liberi professionisti, parlamentari, sindaci, consiglieri provinciali e comunali. E un buon numero di frammassoni. Su 36 fratelli risultati iscritti nel 1994 alla loggia Fratelli Bandiera del Grande Oriente d’Italia, ben 14 erano soci Corda Fratres; altri due, avvocati, nella loggia La Ragione di Messina.

Cassata è anche riuscito ad annoverare tra i cordafratrini onorari, due uomini di vertice dei Carabinieri, i generali Sergio Siracusa (già direttore del Sismi ed ex comandante dell’Arma) e Giuseppe Siracusano (tessera n. 1607 della P2), indicato dalla relazione di minoranza dell’on. Massimo Teodori sulla superloggia atlantica come “un fedelissimo di Gelli da antica data”. Stelle di prima grandezza del panorama politico e culturale nazionale i partecipanti ai convegni della Corda. Compreso il vicecapo Dap Francesco Di Maggio, relatore all’incontro su Principio di legalità e carcerazione preventiva, anno 1994.

Mafia e potere

Nel circolo di Barcellona non sono mancate tuttavia le presenze e le frequentazioni imbarazzanti. Come quella del mafioso Giuseppe Gullotti, condannato in via definitiva quale mandante dell’omicidio di Beppe Alfano. Gullotti è stato membro del direttivo di Corda Fratres nel 1989 e socio fino all’autunno del 1993, quando fu “allontanato” a seguito dei pesanti rilievi fatti dalla Commissione parlamentare antimafia in visita nella città del Longano. “Venne ordinato uomo d’onore nel 1991, per intercessione del vecchio boss di San Mauro Castelverde, Giuseppe Farinella”, ha raccontato Giovanni Brusca. “Sempre il Gullotti si sarebbe dovuto occupare di reperire l’esplosivo necessario per l’attentato che venne progettato tra il ’92 e il ’93 contro il leader del Partito socialista Claudio Martelli, attraverso l’interessamento e la mediazione del clan di Nitto Santapaola”. Deponendo al processo Mare Nostrum contro le cosche della provincia di Messina, lo stesso Brusca ha dichiarato che il telecomando da lui adoperato per la realizzazione della strage di Capaci, gli era stato materialmente consegnato proprio da Gullotti. L’assegnazione al barcellonese di tale incarico, secondo Brusca, fu patrocinata dal mafioso Pietro Rampulla (originario di Mistretta), l’artificiere del tragico attentato del 23 maggio ‘92 contro il giudice Falcone. “Anch’io avevo rapporti con Gullotti”, ha raccontato nel giugno del 1999 il controverso collaboratore Luigi Sparacio, già a capo della criminalità messinese. “Mi era stato presentato da Michelangelo Alfano come persona vicina a Cosa nostra, e in tale ambito fornii al predetto uno-due telecomandi da utilizzare per attentati e che erano stati per me realizzati su commissione, da un dipendente dell’Arsenale militare di Messina…”.

Nome ancora più indigesto dell’albo-soci di Corda Frates, quello di Rosario Pio Cattafi, professione avvocato, ritenuto il capo dei capi della mafia barcellonese. “Numerosi collaboratori di giustizia, tra i quali spiccano Angelo Epaminonda e Maurizio Avola hanno indicato Cattafi come personaggio inserito in importanti operazioni finanziarie illecite e di numerosi traffici di armi, in cui sono emersi gli interessi di importanti organizzazioni mafiose quali, oltre alla cosca Santapaola, le famiglie Carollo, Fidanzati, Ciulla e Bono”, hanno scritto i giudici di Messina nell’ordinanza del 21 luglio 2000 che ha imposto al Cattafi l’obbligo di soggiorno nel Comune di Barcellona per la durata di cinque anni.

Da giovanissimo aveva militato nelle file della destra eversiva rendendosi protagonista nell’ambiente universitario messinese di alcuni pestaggi (unitamente all’allora ordinovista Pietro Rampulla), risse aggravate, danneggiamento, detenzione illegale di armi. Trasferitosi in Lombardia a metà degli anni ’70, Cattafi fu sospettato di essere stato a capo di una presunta associazione operante a Milano, responsabile del sequestro, nel gennaio 1975, dell’imprenditore Giuseppe Agrati, rilasciato dopo il pagamento di un riscatto miliardario. All’organizzazione fu anche contestata la compartecipazione nei traffici di stupefacenti e nella gestione delle case da gioco per conto delle famiglie mafiose siciliane. Nel maggio 1984, i presunti appartenenti all’organizzazione malavitosa furono raggiunti da un mandato di cattura firmato dal Pm Francesco Di Maggio. Cattafi, residente in Svizzera, sfuggì alla cattura. Pochi giorni dopo fu però l’autorità giudiziaria del canton Ticino ad ottenerne l’arresto nell’ambito di un’inchiesta per traffico di stupefacenti. E il 30 maggio dell’84, Di Maggio raggiunse Cattafi in cella a Bellinzona per un interrogatorio i cui verbali furono trattenuti dalle autorità elvetiche.

Di Maggio e Cattafi si sarebbero poi incrociati nel corso delle indagini sull’efferato omicidio del Procuratore capo di Torino, Bruno Caccia. Lo ha raccontato al Corriere della sera (8 giugno 1995), l’allora sostituto procuratore di Barcellona Olindo Canali, recentemente condannato il 14 maggio 2012 in primo grado a due anni per falsa testimonianza commessa nel corso del processo Mare Nostrum contro le organizzazioni mafiose barcellonesi. “Fu Di Maggio ad arrestare Cattafi nell’85 per l’inchiesta sull’omicidio Caccia. Fu il giudice istruttore ad assolverlo, ma rimase dentro per un anno”. Cattafi, in verità, non venne arrestato a seguito dell’assassinio del magistrato, ma fu interrogato in carcere dai pubblici ministeri milanesi titolari dell’inchiesta. Olindo Canali conosceva da lungo tempo Di Maggio. Con il magistrato barcellonese, egli aveva fatto un periodo di tirocinio da uditore a Milano. “Sempre Di Maggio, il cui padre era stato maresciallo dei Carabinieri a Pozzo di Gotto, m’informò, in generale, sulla situazione barcellonese prima di trasferirmi in Sicilia”, ha spiegato Canali.

Un oscuro passaggio sui rapporti tra Di Maggio e Cattafi fu riportato in quegli stessi anni in uno dei dossier anonimi fatti circolare ad arte per screditare la figura del giudice Antonio Di Pietro e finiti nelle mani del leader Psi Bettino Craxi, latitante ad Hammamet. “Cattafi - vi si legge - a Milano, dove aveva iniziato un’attività nel campo dei farmaceutici e sanitari, rivede e frequenta il giudice Francesco Di Maggio, che ha passato la sua giovinezza fra Milazzo e Barcellona, dove ha frequentato le scuole, compreso il liceo, e dove ha conosciuto Cattafi, di cui è coetaneo. Di Maggio introduce Cattafi nell’ambiente dei magistrati, dove pare Cattafi abbia conosciuto Di Pietro (allora sconosciuto) e la sua donna, poi divenuta sua moglie”. Quella su Di Pietro era una bufala, quella su Di Maggio, vedremo, una mezza verità.

Bisogna attendere l’8 ottobre del ‘93 perché Rosario Cattafi venga tratto in arresto in esecuzione di un ordine di cattura emesso dalla DDA di Firenze, nell’ambito dell’inchiesta sull’autoparco della mafia di via Salomone a Milano. Dopo una condanna in primo grado a 11 anni e 8 mesi per associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti (4 anni scontati nel carcere di Opera), la sentenza fu annullata per un vizio procedurale. Rifatto il processo, Cattafi venne assolto perché in sede dibattimentale furono dichiarate inutilizzabili le intercettazioni ambientali che avevano documentato le sue frequentazioni dell’autoparco. Del barcellonese si occupò poi la Procura di La Spezia nell’ambito dell’inchiesta su un grosso traffico di armi delle società Oto Melara, Breda ed Augusta con paesi sottoposti ad embargo. È una nota informativa del Gico della Guardia di Finanza di Firenze del 3 aprile 1996 a dare avvio alle indagini. Un paragrafo è dedicato ai suoi rapporti con il giudice Cassata: “Cattafi frequentava circoli e club sia a Milano che a Barcellona, potendo così incrementare il numero delle conoscenze utili. A Barcellona risultava interessato all’attività della Corda Fratres, il cui rappresentante, Antonio Franco Cassata, risulta rappresentante anche della Ouverture–Associazione Italia-Benelux e del Comitato Organizzativo Premio Letterario Nazionale Bartolo Cattafi”. Il Gico segnalava infine che nelle agende del barcellonese comparivano il numero telefonico dell’abitazione privata del magistrato, quello degli uffici giudiziari di Messina dove operava e quello dell’associazione “di cui risulta rappresentante legale…”.

Nel 1998 Cattafi fu sottoposto ad indagini (anch’esse archiviate) da parte delle Procure di Caltanissetta e Palermo sui cosiddetti “mandanti occulti” delle stragi del 1992-93. Nel procedimento (Sistemi Criminali), il nome di Cattafi comparve accanto ai boss mafiosi Salvatore Riina e Nitto Santapaola, al patron della P2 Licio Gelli e all’ordinovista Stefano Delle Chiaie. Sugli indagati, il sospetto di “avere, con condotte causali diverse ma convergenti, promosso, costituito, organizzato, diretto e/o partecipato ad un’associazione avente ad oggetto il compimento di atti di violenza con fini di eversione dell’ordine costituzionale, allo scopo - tra l’altro - di determinare le condizioni per la secessione politica della Sicilia e di altre regioni meridionali dal resto d’Italia…”.

Nel luglio 2012, il controverso avvocato barcellonese è stato arrestato nell’ambito dell’operazione “Gotha 3” poiché ritenuto uno degli uomini di vertice delle organizzazioni mafiose siciliane. Da allora ha interpretato il ruolo di dichiarante, riempiendo pagine di verbali relativamente ai suoi presunti rapporti con il giudice Di Maggio. Al centro, ancora una volta, la trattativa Stato-mafia. Il racconto di Cattafi parte da quando venne arrestato in Canton Ticino e fu sentito in carcere dal magistrato barcellonese. “Quando già Di Maggio si stava convincendo della mia estraneità alla vicenda del sequestro Agrati, costui mi chiese se ero disposto a rilasciare dichiarazioni sul conto di Salvatore Cuscunà detto Turi Buatta, indicandolo come uomo di Santapaola”, ha esordito. “Nel maggio del ’93 rividi il giudice in un bar a Messina. Di Maggio mi disse che era stato nominato vicedirettore del Dap. C’erano state le stragi Falcone e Borsellino e da pochi giorni l’attentato a Maurizio Costanzo. Dobbiamo bloccarli questi porci, mi disse. Dobbiamo prendere la cosa in mano e portare avanti una trattativa, il concetto era quello, ma non so se usò questa parola. In particolare Di Maggio mi chiese se, attraverso il boss Cuscunà che avevo frequentato a Milano nell’Autoparco, potevo cercare un contatto con Santapaola per tentare di aprire un dialogo. Dovevo contattare l’avvocato di Cuscunà promettendogli qualunque cosa, tutti i benefici possibili per il suo cliente, pur di riuscire a parlare con Santapaola per riuscire a trovare nuove strade per disinnescare la violenza di Cosa nostra…”. Le dichiarazioni del boss, in verità, appaiono poco convincenti. “Da decenni, Cattafi era in rapporti diretti con Santapaola e non si comprende perché lo avrebbe dovuto contattare tramite una terza persona”, evidenzia l’avvocato Repici. “E perché poi incontrare il giudice a Messina quando Cattafi poteva incontrarlo più comodamente in qualche ufficio romano?”

“Il romanzo criminale continua”

Nelle carte della Procura palermitana sulla trattativa Stato-mafia si ripete, troppo spesso, il nome del senatore Marcello dell’Utri, una condanna in appello per concorso esterno in associazione mafiosa annullata con rinvio dalla Cassazione. Dell’Utri, per gli inquirenti, potrebbe essere stato uno dei maggiori “intermediari” con Cosa nostra che cercava d’imporre gli obiettivi del papello minacciando altro sangue dopo Capaci e via d’Amelio. Nel biennio 92-93, secondo alcuni collaboratori di giustizia, il manager di Publitalia sarebbe stato un visitatore abitudinario del messinese. L’ex killer catanese Maurizio Avola ha riferito di avere accompagnato nel 1992 a Barcellona Pozzo di Gotto il boss Marcello D’Agata per un appuntamento con Dell’Utri. Nel corso di un interrogatorio davanti ai pm di Catania e Caltanissetta, Avola ha pure accennato ad un incontro avvenuto - sempre a Barcellona - tra Marcello Dell’Utri e i boss catanesi Aldo Ercolano, Nino Pulvirenti e Benedetto Santapaola.

Gli inquirenti hanno potuto accertare che nel periodo compreso tra il 1990 e il 1993, Marcello Dell’Utri ha realizzato 58 viaggi aerei tra Roma e la Sicilia, di cui ben 34 da e per Catania nel solo 1992. Nella loro requisitoria al processo contro il braccio destro di Berlusconi, i pubblici ministeri di Palermo rilevano che il Santapaola era stato ospite del gruppo Gullotti nel primo semestre del ’93. “Da una verifica dei tabulati telefonici relativi all’utenza in uso a Gullotti Giuseppe sono risultati contatti con Cattafi Rosario”, proseguono i pm. “E non deve sfuggire che lo stesso Cattafi è stato identificato come soggetto più volte chiamato da persone appartenenti al circuito del Dell’Utri, cioè da persone entrate con lui in contatto telefonico od esistenti nelle sue agende”. Ancora Cattafi, dunque. E ancora una volta Barcellona.

Meno di due anni fa, il Tribunale di Messina ha ordinato il sequestro dei beni del valore di sette milioni di euro di proprietà dei più stretti congiunti del boss barcellonese, compresi i terreni destinati ad ospitare un megaparco commerciale di 18,4 ettari. Il progetto, presentato dalla società Di.Be.Ca. sas, prevede una devastante colata di cemento che non ha uguali nel panorama siciliano: infrastrutture per la grande distribuzione, alberghi, ristoranti e locali di dubbio divertimento per 398.414 metri cubi, contro un volume esistente di appena 23.165. Nell’estate 2010, il piano insediativo fu approvato all’unanimità (e un’astensione) dal consiglio comunale di Barcellona ma un’indagine della Procura ne ha bloccato fortunatamente l’iter. L’azione degli inquirenti è scaturita a seguito di un esposto a firma dell’associazione antimafie “Rita Atria” e “Città Aperta” di Barcellona ed un’interrogazione del parlamentare Pd, Giuseppe Lumia.

Le associazioni avevano pure chiesto l’istituzione di una commissione d’inchiesta della Prefettura per verificare l’esistenza di forme di condizionamento della criminalità organizzata sulla vita amministrativa del Comune. Gli accertamenti, espletati solo tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012, hanno convinto i commissari prefettizi a richiedere al Governo lo scioglimento per mafia del consiglio comunale di Barcellona. Il provvedimento adottato dalla ministra Cancellieri è stato tardivo e differente. Con un decreto firmato il 22 maggio 2012, esattamente un giorno dopo il voto che ha sancito l’elezione a sindaco di Maria Teresa Collica, la Cancellieri ha disposto solo la sospensione e per 30 giorni di sei funzionari comunali, compreso il segretario generale. “Le condotte poste in essere dai suddetti funzionari – si legge nel decreto - hanno compromesso il regolare funzionamento di alcuni servizi in contrasto con i principi di buon andamento ed imparzialità arrecando altresì grave nocumento all’amministrazione comunale”. Nel febbraio 2013 l’ultimo colpo di scena. Il sostituto procuratore di Barcellona, Francesco Massara, ha notificato 17 avvisi di garanzia per il reato di “abuso d’ufficio in concorso determinato dall’altrui inganno”, relativamente alle procedure amministrative che hanno condotto all’approvazione finale del Piano particolareggiato per il megaparco commerciale in odor di mafia. Tra gli avvisati, oltre al boss Rosario Cattafi e ai suoi congiunti, compaiono l’ingegnere capo del Comune Orazio Mazzeo, i cinque componenti della commissione edilizia urbanistica, gli estensori del progetto Mario e Santino Nastasi. “Nonostante i pesanti rilievi della commissione prefettizia e dei magistrati barcellonesi, il consiglio comunale del Longano non ha ancora annullato in autotutela il piano insediativo del parco Cattafi”, denuncia Santo Laganà dell’associazione “Rita Atria”. “A Barcellona c’è tanta voglia di voltare pagina ma i vecchi padrini e i gattopardi sono sempre in agguato. E il vecchio e il nuovo possono tornare a confondersi e annullarsi…”.

Articolo pubblicato in Narcomafie, n. 3, marzo 2013

Commenti

Post più popolari