Non esistono interventi umanitari, ma solo guerre

Chi è contro la guerra ritiene le missioni militari un modo per mascherare vere e proprie operazioni belliche. Come spiega Antonio Mazzeo


Antonio Mazzeo, “ricercatore per la Pace”, siciliano, ha operato per molti anni nella cooperazione internazionale. Soprattutto in Colombia, a Medellin. E' autore di Colombia, ultimo inganno e del più recente I padrini del ponte (ed. Alegre) sugli intrecci mafia-ponte di Messina, oltre che di vari studi sui processi di militarizzazione del Mediterraneo. A lui abbiamo chiesto una valutazione sulle missioni militari all’estero.


Parlando di missioni all'estero si pensa, in genere, a missioni a carattere umanitario. A suo avviso vale ancora questa interpretazione?

Personalmente non ho mai condiviso il concetto di “intervento umanitario”. Mi sembra un tentativo di coprire l'idea stessa dell'esistenza della guerra. Dovrebbe essere chiaro invece, almeno per la coscienza dei pacifisti, che si tratta di guerre vere e proprie, con costi umani, sociali e ambientali elevatissimi. Andrebbero impiegati i termini adeguati, invece assistiamo ad una sorta di maquillage che favorisce il riarmo, a tutto vantaggio del complesso industriale-militare, lo stesso che controlla i media e alimenta l’equivoco del “ripristino del diritto internazionale”.


Costi umani. A pagare il prezzo di sono spesso civili indifesi con i cosiddetti “effetti collaterali”. Cosa può dirci in proposito?

Una recente ricerca della Rhode Island University ha analizzato i costi umani degli interventi dopo l'11 settembre 2001. Sono dati devastanti, anche se estremamente prudenti nella stima. Senza calcolare la Libia (su cui al momento non esistono dati verificabili), in totale le vittime sarebbero 258mila.
I morti civili (intendendo donne, bambini, anziani...persone assolutamente non combattenti) a seguito delle operazioni della Nato sarebbero almeno 172mila. Di cui: 125mila in Iraq, 12mila in Afghanistan (ma si ritiene che in realtà siano molti di più) e ben 35mila in Pakistan, nelle zone tribali. Ufficialmente il Pakistan non viene considerato area di conflitto, ma lo stillicidio delle vittime provocate dagli attacchi con i droni è quotidiano.
Nella stessa ricerca si parla anche dei costi economici che gravano sui contribuenti statunitensi. Una cifra che, per gli Usa, si aggira tra 3700 e 4400 miliardi di dollari, praticamente un quarto del debito pubblico degli Usa. Questo per dire che tra le “vittime collaterali” andrebbero calcolati anche i costi sociali, le migliaia di vite sacrificate tra la stessa popolazione americana, gli homeless condannati a morire per strada.


Un tributo sempre più alto è anche quello versato dai nostri soldati. Quali ritiene siano le motivazioni di questi giovani italiani, in maggioranza provenienti dal Sud, che partono volontari?

Vanno perché, per intere generazioni del Sud, la carriera militare è rimasta una delle poche possibilità di mobilità sociale, soprattutto per giovani con scolarità bassa o media. Un mese all'estero comporta uno stipendio anche triplo rispetto a quello normale e garantisce l'accesso a beni di consumo che ormai vengono considerati primari, la casa, l'auto... A mio avviso, non andrebbero idealizzati (le ragioni umanitarie come l'”esportazione della democrazia” sono in gran parte propagandistiche), ma nemmeno colpevolizzati. Va anche detto che parlando di “interventi umanitari” si facilita la rimozione di eventuali scrupoli. Se si parlasse onestamente di guerra probabilmente molti di loro si porrebbero delle domande.


Ritiene che le conseguenze sui tempi lunghi (ferite, invalidità, problemi di reinserimento...) siano state sottovalutate?

Si dovrebbe tener conto anche delle centinaia di feriti e delle “ferite psicologiche”. Gli Stati Uniti incontrano molte difficoltà con i veterani. Si è verificato quanto possa essere difficile il recupero dei reduci, persone sottoposte a stress, a traumi per aver visto morire altri soldati o civili. I giovani italiani che hanno partecipato a missioni in aree di conflitto sono ormai decine di migliaia. Si è parlato di “sindrome dei Balcani” per i soldati morti o ammalati di cancro (ma anche per tutti quelli che da anni convivono con la paura di ammalarsi) dopo le missioni in Bosnia e Kossovo, dove si era fatto uso di uranio impoverito.
E non dimentichiamo le vittime tra cooperanti e giornalisti. Dopo l'11 settembre nelle zone di conflitto sarebbero morti 168 giornalisti e 266 tra volontari e cooperanti.


Intervista a cura di Gianni Sartori, pubblicata in La Voce dei Berici, Vicenza, l’11 settembre 2011.

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