Affari e misteri sulla rotta Italia - Libia

Sono ancora tante le zone d’ombra nella storia delle relazioni politiche e militari tra Italia e Libia. Il 31 ottobre scorso, il ministro degli Esteri libico Abdurrahman Shalgam, ha ulteriormente complicato il lavoro di storici ed analisti, rivisitando gli eventi di guerra della primavera 1986, quando l’allora presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, diede l’ordine di bombardare Tripoli e Bengasi. La notte del 14 aprile decine di cacciabombardieri F-111 schierati in due basi britanniche e gli aerei della VI Flotta di stanza nel Mediterraneo distrussero caserme militari e abitazioni civili, causando la morte di 37 persone. Obiettivo del blitz Usa l’assassinio del colonnello Muammar Gheddafi, accusato – senza prove - di finanziare il terrorismo internazionale.

“Avvisate il colonnello!”
 
“Gheddafi si salvò – ha dichiarato Abdurrahman Shalgam – perché due giorni prima dell’aggressione Craxi mi mandò un amico comune italiano per dirmi: ‘Attenti, il 14 o il 15 aprile ci sarà un raid americano contro di voi’. In quell’occasione gli Stati Uniti utilizzarono la base di Lampedusa, ma contro la volontà del governo italiano, perché Roma era contraria all’uso dei cieli e dei mari nazionali per l’aggressione”.
Per il ministro libico, l’Italia faceva il doppio gioco. Nel nome dei comuni interessi (principalmente le forniture petrolifere all’Eni), l’allora presidente del consiglio Bettino Craxi avrebbe chiesto al proprio consigliere diplomatico, l’ambasciatore Antonio Badini, di preavvertire il governo libico delle intenzioni di guerra del partner Nato. Allo stesso tempo Palazzo Chigi sosteneva l’intervento “anti-terrorismo” di Washington. Un equilibrismo sul filo del rasoio. Se è pur vero, infatti, che in occasione dell’attacco Usa del 14 aprile 1986 l’Italia non autorizzò i bombardieri Usa a sorvolare lo spazio aereo nazionale, gli aerei cisterna per rifornire in volo gli F-111 partirono da una base Usa in Italia (probabilmente Sigonella), mentre tutti i porti civili e militari siciliani ospitarono le soste tecniche delle unità navali della VI flotta, alla vigilia e dopo i bombardamenti su Tripoli e Bengasi.
 
“Quell’attacco americano fu un’iniziativa impropria, un errore di carattere internazionale”, ha commentato Giulio Andreotti, al tempo ministro degli Esteri del governo Craxi. “E credo proprio che dall’Italia partì un avvertimento per la Libia”, ha aggiunto il senatore a vita, confermando le “rivelazioni” libiche. Ancora più esplicita la vecchia guardia del partito socialista italiano. “Gheddafi salvato da Craxi?”, ha dichiarato Gianni De Michelis, più volte alla guida della Farnesina e ministro del lavoro nei giorni del conflitto Usa-Libia. “Si sapeva da tempo che i rapporti tra Roma e Tripoli erano più che buoni. Se c’è un filo conduttore tra la Prima e la Seconda Repubblica è senza dubbio il rapporto tra Roma e Tripoli. Da Andreotti a Craxi fino a Berlusconi, Prodi e D’Alema, si è sempre mantenuto saldo il rapporto. La Libia è quasi parte d’Italia e noi non abbiamo fatto mai mistero delle nostre idee e dei nostri contatti coi libici (…) Craxi fece avvertire il governo libico e anche gli americani subito dopo cercarono agganci, tant’è che alla fine hanno trovato una composizione anche per la strage di Lockerbee”. Anche l’allora responsabile esteri del Psi, Margherita Boniver, ha confermato l’“aiuto” di Bettino Craxi: “L’operazione militare non era condivisa e per questo il governo italiano mise in guardia Gheddafi. Ed usò tutti i mezzi a sua disposizione...”.
 
La rivisitazione storica di quegli eventi era già iniziata, sempre in casa dell’(ex) garofano, durante la campagna di beatificazione del defunto leader socialista. “Fu Craxi a informare Gheddafi dell’imminente blitz americano, permettendo al leader libico di salvarsi”, rivelò nel 2003 Cesare Marini, senatore Sdi. Non è stato dunque uno scoop quello di Abdurrahman Shalgam. Del doppio canale diplomatico si sapeva da tempo.
 
 
Giochi di guerra nel Mediterraneo
 
Ecco perché le dichiarazioni dell’alto rappresentante dell’esecutivo libico hanno prodotto forti perplessità e qualche risentimento tra alcuni dei protagonisti politici che nel biennio 1985-86 si opposero alla campagna di guerra nel Mediterraneo, denunciando altresì l’asfissiante processo di militarizzazione della Sicilia che ne derivò. Gli esponenti dell’allora forte movimento pacifista siciliano ricordano che l’Italia era in prima linea contro la Libia a fianco di Washington e che proprio Bettino Craxi e l’intero partito socialista erano tra i più accesi denigratori dei pacifisti, accusati tutti di essere manovrati e finanziati da Gheddafi. L’on. Agostino Spataro, ex componente Pci delle Commissioni Affari esteri e Difesa della Camera dei Deputati, ricorda su Aprile che nonostante l’“avviso”, sotto le bombe statunitensi morì la figlioletta adottiva di tre anni del colonnello libico. “In realtà – spiega l’ex parlamentare - quella notte è accaduto quello che da tempo si temeva, e si sapeva, ovvero che l’amministrazione Reagan aveva già pianificato l’attacco alla Libia”.
Spataro aggiunge che a seguito dell’attacco, il 15 aprile 1986, la Libia rispose con il lancio di due missili Scud contro la stazione Loran dell’Us Guard Coast ospitata nell’isola di Lampedusa. “Gheddafi, infuriato per la vile, indiscriminata aggressione, non indirizzò la rappresaglia verso uno dei tanti possibili obiettivi Usa, ma scagliò i suoi missili contro l’Italia ovvero contro il paese-amico il cui capo del governo l’aveva avvisato dell’imminente pericolo. Ma quei due missili partirono dal suolo libico e soprattutto raggiunsero effettivamente Lampedusa? Già allora affiorarono seri dubbi, sia per la scarsa potenzialità ed efficienza della tecnologia militare libica e sia per fatto, non secondario, che i lampedusani non si accorsero dell’arrivo dei due potenti ordigni. Ancora oggi si sconosce il punto esatto dell’impatto. Nessuno è in grado di dimostrare che i due missili siano arrivati a Lampedusa e o nelle sue immediate vicinanze”.
 
Per il socialista Cesare Marini si trattò di mera “finzione”: il lancio dei missili su Lampedusa fu solo un espediente depistante, “utilizzato per coprire l’amico italiano” d’avanti agli Stati Uniti. “Di certo io non mi sono spaventato”, ha dichiarato l’immancabile Giulio Andreotti. “La mia sensazione è che i missili furono lanciati ma volutamente fuori bersaglio: non c’era nessuna volontà di causarci dei danni”. Una vera e propria fiction di guerra, dunque.
 
Il pomeriggio del 15 aprile 1986, gli abitanti di Lampedusa avvertirono due boati a largo dell’isola. Il primo dispaccio di agenzia parlò di “cannonate sparate da una motovedetta libica”. Qualche minuto dopo si parlò del “Bang” dovuto al passaggio a bassa quota di aerei supersonici. Intorno alle 18 le autorità americane informarono il ministro della Difesa italiano, Giovanni Spadolini, del lancio di due missili contro l’isola. Gli ordigni però erano caduti a un paio di chilometri dalla costa. Il giorno successivo l’ambasciatore libico a Roma confermò l’attacco: “I missili sono venuti dalla Libia. Ma non abbiamo cercato di colpire l’Italia ma una base Usa”.
 
 
Due missili che si sono persi nel nulla
 
Ma che accadde realmente quel giorno? A rendere più torbidi i contorni della vicenda ci ha pensato l’ex generale, Basilio Cottone, siciliano originario del comune di Raccuia (Messina), capo di stato maggiore dell’Aeronautica militare dal 1983 al 1986. In un’intervista al quotidiano Pagine di Difesa del 20 settembre 2005, Cottone, si è detto scettico del lancio dei missili libici. “Sono stato responsabile dell’approntamento della reazione italiana al lancio dei missili su Lampedusa”, ha esordito l’ex militare. “Personalmente non ho mai creduto che siano stati lanciati missili da parte libica contro il territorio italiano. Ma, poiché allora tutti lo credevano, ho ritenuto di operare di conserva. La notizia del lancio dei missili per me era falsa e le azioni messe in atto volevano accreditarla. Molte organizzazioni extranazionali erano allora interessate al fatto che il governo italiano adottasse una politica di più forte chiusura nei confronti della Libia. È da tener presente che negli anni ‘70 e gli inizi degli ’80, gli attentati terroristici contro obiettivi occidentali erano numerosi. Tra questi: dirottamenti di aerei passeggeri, abbattimenti di velivoli commerciali, strage alla Olimpiade di Monaco del ‘72 e attentato di Fiumicino della fine del ‘73. In questo quadro si inserisce la missione in Libia di Argo-16 con la quale sono stati fatti rientrare i terroristi palestinesi arrestati a Fiumicino mentre preparavano un attentato a un velivolo di linea israeliano. Questi, e altri eventi successivi, portarono a un irrigidimento politico da parte degli occidentali verso la Libia di Gheddafi”. Basilio Cottone sostiene che “qualcuno” tentò di creare le condizioni per incrinare irrimediabilmente le relazioni Roma-Tripoli. “Da qui alle notizie dei missili su Lampedusa la strada fu breve. Penso, sia stata un’azione di ‘servizi’ che hanno montato la cosa, però il fatto ha assunto credibilità internazionale ed è rimasto nell’immaginario collettivo il lancio concreto”.
 
Alle parole dell’ex capo di stato maggiore, hanno fatto seguito quelle del generale Mario Arpino, successore di Cottone alla guida dell’Aeronautica. In un’intervista a L’Espresso (25 novembre 2005), Arpino ha ammesso che le forze armate non raccolsero mai nessuna prova evidente dell’attacco missilistico. “I nostri radar non erano in grado di scoprire missili di quel genere”, ha aggiunto il generale. “Avevamo chiesto alla Nato di fornirci degli Awacs, radar volanti molto potenti, ma ci furono concessi mesi dopo. Io ero responsabile della sala di crisi e gli americani non mi comunicarono nulla. Se informavano qualcuno, lo facevano a livello politico. So con certezza che non venimmo nemmeno avvisati del raid contro Tripoli. Ricordo la sorpresa quella notte quando i nostri radar scoprirono gli aerei diretti in Libia”.
Prima della nomina ai massimi vertici dell’AMI, Basilio Cottone era stato comandante della 5° Ataf di Vicenza, la forza aerotattica della Nato, e successivamente rappresentante militare italiano presso il Comitato dell’Alleanza Atlantica di Bruxelles. Dimessosi dalle Forze Armate, l’alto ufficiale fu nominato, il 14 aprile 1993, presidente del consiglio d’amministrazione dell’Agusta Spa, società leader nella produzione di elicotteri da guerra. Ai vertici dell’industria di elicotteri, Cottone ci resterà ininterrottamente per sette anni, per poi divenirne consigliere. L’ingresso del generale in Agusta avvenne quattordici giorni prima della caduta del primo governo di Giuliano Amato (Psi), ministro della difesa il siciliano Salvo Andò (Psi) e sottosegretari due potenti politici della provincia di Messina, Salvatore D’Alia (Dc) e Dino Madaudo (Psdi). La nomina del generale Cottone fu adottata dall’allora commissario liquidatore dell’Efim, Alberto Predieri, dopo l’arresto del manager Roberto D’Alessandro, ex presidente Agusta - poi prosciolto - nell’ambito dell’inchiesta sul pagamento di tangenti a favore del Partito socialista per la fornitura di 12 elicotteri alla Protezione civile (ministro, allora, Nicola Capria, Psi e anch’egli messinese).
L’1 settembre 1993, un’altra inchiesta, “Arzente Isola”, avrebbe coinvolto l’Agusta relativamente ad una transazione di armi gestita da alcuni faccendieri messinesi sulle rotte Italia-Antille Olandesi-Perù-Siria. Nello specifico, nella primavera del 1992 fu avviata la trattativa per il trasferimento di dodici elicotteri CH47 “Agusta” alla Guardia nazionale dell’Arabia Saudita. Tra gli intermediari dell’affaire, il noto trafficante d’armi arabo Adnan Kashoggi ed imprenditori vicini all’entourage dell’odierno presidente del consiglio italiano. Alla fine, però, l’inchiesta giudiziaria si arenò nelle sabbie mobili della Procura di Messina.
 
 
Armi e cemento per i partner nordafricani
 
L’Agusta, oggi AgustaWestland, è con l’Eni una delle prime società italiane tornate ad operare in Libia dopo il riavvicinamento Roma-Tripoli. Nel gennaio del 2006 sono stati forniti alle forze armate libiche, 10 elicotteri A109 Power, valore 80 milioni di euro, destinati al “controllo delle frontiere”. La società italiana ha pure sottoscritto un accordo con la Libyan Company for Aviation Industry per costituire una joint venture (la Libyan Italian Advanced Tecnology Company - Liatec), per lo sviluppo di attività nel settore aeronautico e dei sistemi di sicurezza. L’anno successivo è stata la volta di Finmeccanica, la holding che detiene il controllo di AgustaWestland, a firmare un accordo con il governo libico per la creazione di una joint venture nel campo dell’elettronica e dei sistemi di telecomunicazione per la difesa, con target il mercato libico e parte del continente africano. Nel gennaio 2008, Alenia Aeronautica, altra società del gruppo Finmeccanica, ha siglato con il ministero dell’Interno libico un contratto del valore di oltre 31 milioni di euro per la fornitura del velivolo da pattugliamento marittimo ATR-42MP “Surveyor”.
 
L’industria bellica italiana attende trepidante la ratifica del Trattato di cooperazione italo-libico sottoscritto da Silvio Berlusconi e dal colonnello Gheddafi. All’articolo 20 del Trattato si prevede infatti “un forte ed ampio partenariato industriale nel settore della Difesa e delle industrie militari”, nonché lo sviluppo della “collaborazione nel settore della Difesa tra le rispettive Forze Armate”, mediante lo scambio di missioni di esperti e l’espletamento di manovre congiunte (anche se è dal 2001 che le marine militari di Italia e Libia effettuano annualmente l’esercitazione “Nauras” nel Canale di Sicilia). I due paesi s’impegnano altresì a definire “iniziative, sia bilaterali, sia in ambito regionale, per prevenire il fenomeno dell’immigrazione clandestina nei Paesi di origine dei flussi migratori”.
 
Non è stata certo una coincidenza che le dichiarazioni del ministro Shalgam sul pre-avvertimento del bombardamento Usa nel 1986 siano coincise con il convegno organizzato a Roma dalla fondazione guidata dall’ex ministro Beppe Pisanu, presenti Giulio Andreotti, il ministro degli Esteri Franco Frattini, il figlio primogenito del leader libico, Saif El-Islam, e il gotha dell’imprenditoria italiana (Eni, Enel, Telecom, Unicredit, Trenitalia, Bnl, Fondiaria-Sai, Impregilo, ecc.). In cantiere ci sono opere “compensatorie” dei crimini coloniali italiani per 5 miliardi di dollari da realizzare in Libia nei prossimi 20 anni. Il Trattato di cooperazione Italo-libico prevede espressamente che saranno le aziende italiane a realizzare i progetti infrastrutturali.
Intanto il capitale libico fa incetta di pacchetti azionari delle maggiori società italiane. Acquisito il 4,9% di Unicredit, la Central Bank of Libya starebbe per rilevare una quota tra l’1 e il 2% di Terna, la società che gestisce la rete elettrica nazionale. I libici starebbero pure per fare ingresso in Impregilo, il colosso delle costruzioni italiane, general contractor per la realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina, del Mose di Venezia e di importanti tratte della TAV ferroviaria. I libici punterebbero ad acquistare circa il 5% del capitale, ottenendo pure un posto nel consiglio d’amministrazione d’Impregilo. In Libia, del resto, il gruppo italiano ha costituito qualche mese fa una joint venture per realizzare tre università nelle città di Misuratah, Tarhunah e Zliten (valore del contratto, 400 milioni di euro).
 
Al convegno di Roma del 31 ottobre, l’amministratore delegato d’Impregilo, Massimo Ponzellini, è comparso accanto a Saif El-Islam. Cresciuto all’ombra dell’ex presidente del consiglio Romano Prodi, dopo aver ricoperto l’incarico di direttore generale del centro studi Nomisma e dirigente superiore dell’IRI, Massimo Ponzellini passò a sedere nel consiglio d’amministrazione di Finmeccanica. Amministratore delegato della holding di controllo del complesso militare industriale italiano è stato pure Alberto Lina, amministratore delegato d’Impregilo sino al 2007.
Armi e cemento segnano la strategia di penetrazione in nord Africa del capitale finanziario nostrano. “Italiani? Brava gente…”.
 
Articolo pubblicato in Agoravox.it il 5 novembre 2008

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