L'Italia esportatrice di guerra

Nonostante la legge 185 del 1990 sul commercio degli armamenti, sancisca il divieto di esportare armi a paesi belligeranti o che violino la Convenzione internazionale sui diritti umani o che attuino politiche in contrasto con l’art.11 della Costituzione, sono numerosi i casi di palese violazione da parte del governo italiano. Come dire che l’export di armi illegale non è monopolio delle mafie e dei circuiti massonici e postpiduisti, ma che le zone grigie investono direttamente le massime autorità statali e industriali, con le debite coperture dei servizi segreti. Ancora oggi poco sembra essere cambiato rispetto agli anni della maxiinchiesta del giudice Carlo Palermo a Trento.

        Il caso certamente più eclatante degli anni Novanta è sicuramente quello che riguarda la vendita di armi alla Turchia, Paese impegnato in un sanguinoso conflitto contro i Curdi, dove la repressione carceraria raggiunge livelli inimmaginabili. Dopo aver trasferito a fine anni Ottanta decine di elicotteri Agusta, nel  1991 l’Italia ha venduto materiale strategico per una decina di miliardi di lire, per lo più pezzi di ricambio per gli stessi elicotteri. Grazie ad alcuni accordi multilaterali in sede Nato, sono stati ceduti a prezzi stracciati 200 veicoli blindati M-113 già in forza all’Esercito italiano, mentre è stata fornita l’assistenza tecnica per i sistemi radar installati nel Paese. Su licenza della Siai Marchetti sono stati realizzati in un’industria di Ankara 40 veicoli di addestramento e antiguerriglia SF 260, certamente utilizzati durante le operazioni di attacco ai villaggi del Kurdistan turco. Secondo il rapporto annuale del Governo italiano previsto dalla legge 185, sono state autorizzate vendite alla Turchia per 21 miliardi nel ‘92, per 53 miliardi nel ‘93 e per 76 nel ‘94; la Turchia è diventata così l’ottavo cliente in assoluto dell’industria bellica nazionale. Lo scorso anno (1995) l’Alenia ha ottenuto una commessa per la realizzazione di tre radar nella regione orientale del Paese.

         Anche il caso somalo è altamente indicativo del ruolo destabilizzante dell’export italiano. I rapporti economico-militari con la ex colonia sono stati sempre ottimi; un forte incremento dell’export si realizza però a fine anni settanta, durante la guerra del regime di Siad Barre con l’Etiopia per la conquista dell’Ogaden (vengono vendute autoblindo Fiat Iveco-Oto Melara, aerei da addestramento e antiguerriglia Siai Marchetti). Poi, a partire dal 1982 vengono spediti dai porti italiani 3.500 tonnellate di armi alla Somalia (elicotteri Agusta, autocarri Fiat-Iveco, aerei G-222 Aeritalia, apparecchiature ricetrasmittenti, carri armati dismessi M-47, ecc.). Il 1982 è del resto l’anno della firma dell’accordo di cooperazione italo-somalo, sottoscritto dall’allora ministro della difesa socialista Lelio Lagorio e da Siad Barre. Negli anni Ottanta le importazioni militari somale toccano il 49% dell’import totale di quel paese con l’Italia. Con lo scoppio della guerra civile l’esportazione italiana non si è certamente arrestata. Le ambigue relazioni del ministro Salvo Andò con il nuovo regime somalo, il ruolo dei servizi segreti e dell’Arma dei carabinieri nell’addestramento della nuova milizia, le oscure vicende delle triangolazioni con Mogadiscio al centro della morte della giornalista Rai Ilaria Alpi, confermano l’attivismo dei mercanti di armi ufficiali e non.
        
     Con il tratto tipico della doppia diplomazia, mentre riarmava i somali l’Italia trasferiva all’Etiopia 593 tonnellate di armi e nel 1984 vendeva al regime di Menghistu 10 aerei controguerriglia SF-20 Siai Marchetti, certamente poi utilizzati contro il movimento di liberazione dell’Eritrea.

          L’intreccio tangenti-armi del clan Pacini Battaglia ha rivelato l’ingresso delle imprese italiane nel teatro yugoslavo. Per i più è stata una sconcertante sorpresa; non certo per il movimento pacifista che da tempo denunciava le continue violazioni all’embargo sancito dalle Nazioni Unite. L’Ires di Firenze aveva più volte sottolineato che se questo aveva funzionato per i grandi sistemi d’arma, numerose erano state le armi leggere e le munizioni finite in mano dei contendenti. Le violazioni hanno sfruttato le cosiddette ‘zone grigie’ della legge 185, quelle che riguardano l’armamento leggero e “non militare” e i sistemi a doppio uso. Sono stati fotografati uomini delle forze speciali della polizia croata armati di fucili Spas 12 della Franchi di Brescia e di pistole Beretta modello 92. Nel ‘92 la rivista specializzata Panorama Difesa ha pubblicato la notizia che la “pistola mitragliatrice M4 Spectre, prodotta da un’azienda torinese, ha fatto la sua comparsa nel teatro di guerra dei Balcani”. Nel ‘91 e nel ‘92 i dati Istat e Ocse indicavano forniture italiani inferiori al miliardo di lire di pistole, fucili da caccia e da tiro, parti di ricambio, proiettili e munizioni alla Jugoslavia e poi a Slovenia, Croazia e nuova Yugoslavia. Nel primo trimestre del ‘93 figuravano nei dati Istat esportazioni dall’Italia alla Croazia per 1,3 tonnellate di materiale per sistemi radar, per un valore di 265 milioni di lire. La tabella sulle esportazioni per il 1994 segnala il trasferimento di un non meglio precisato “materiale strategico” a Croazia (valore 3,5 miliardi) e Slovenia (1 miliardo).
       
        C’è poi la questione mine, più volte denunciata da alcune organizzazioni internazionali per la pace e la difesa dei diritti umani. Nonostante l’impegno del governo ad attuare una moratoria nella produzione e nella vendita di mine e gli accordi sottoscritti dall’Italia in sede europea ed internazionale, la Valsella Meccanotecnica (50% proprietà della Gilardini - gruppo Fiat - e 50% della famiglia Borletti), ha pensato bene di continuare a produrre in una industria consociata di Singapore la Valmara 69, la più pericolosa mina antipersona in circolazione, e le mine anticarro VS 50. A sua volta la Bpd Difesa e Spazio (di proprietà Fiat) ha trasferito la produzione in Grecia, Spagna e Portogallo. In un catalogo in inglese del 1995 è stato scoperto dall’Osservatorio sull’industria bellica di Brescia che la Valsella, la Bpd e la Tecnovar di Bari hanno intrapreso la produzione delle cosiddette ‘mine intelligenti’ di terza generazione, che secondo i produttori dovrebbero disattivarsi automaticamente dopo un certo periodo di tempo.  Negli anni Ottanta l’export di mine ha rappresentato per i suoi risvolti umani e i suoi costi sociali tra i casi più gravi di violazione delle norme sul commercio di armi. Ad esempio, 96.000 mine antiuomo e di 24.000 anticarro furono trasferite dall’Italia al regime iracheno per essere utilizzate nel Kurdistan. La Valsella del resto era stata l’azienda al centro di una tra le più inquietanti inchieste sui traffici di armi, quella della Procura di Massa Carrara del 1987, che vedeva protagonisti i dirigenti dell’industria di Brescia e alcuni trafficanti vicini alle cosche mafiose siciliane e all’eversione neofascista. Secondo il Wall Street Journal, la violazione dell’embargo all’Iraq sarebbe proseguita almeno sino al 1991, quando grazie  alla consociata di Singapore la Valsella ha trasferito al regime di Saddam Hussein 9 milioni di mine. L’area mediorientale continua ancora ad essere la meta privilegiata dell’export di mine del ‘made in Italy’. Nel 1992 90.000 mine anticarro della Tecnovar sono finite all’Egitto, 96.000 mine antiuomo e 24.000 anticarro della Valsella all’Arabia Saudita.
     Negli anni Novanta l’elenco dei Paesi importatori di armi italiane che certamente non si caratterizzano per la difesa delle Convenzioni internazionali sui diritti dell’uomo e per le scelte di pace e di dialogo internazionale si è comunque allungato. Tra i Paesi ha ad altissimo tasso di repressione interna, spiccano le esportazioni del ‘91 alla Cina (missili Aspide per 10 miliardi), al Perù (2 elicotteri Agusta per 8,5 miliardi), all’Egitto (200 missili Aspide per 160 miliardi). Al regime del Sudan il ministero della Difesa ha offerto “servizi militari” per un valore di 150 mila dollari.

          Nel 1992 l’Italia esporta armamenti “difensivi” al governo di Cipro per oltre 200 miliardi di lire (missili Aspide e lanciatori Alenia e Oerlikon Italiana). Due corvette sono state invece trasferite al Marocco (la metà di quelle ordinate da Baghdad alla Fincantieri e ‘congelate’ in Italia con la guerra del Golfo). All’Iran, quale premio per la “condotta responsabile nella guerra del Golfo”, secondo il Comitato interministeriale per gli scambi di armamenti, sono stati trasferiti parti di ricambio per i numerosi elicotteri Agusta precedentemente acquistati grazie all’intermediazione di Vittorio Emanuele di Savoia. Notevole l’esportazione alle Filippine: aerei Siai Marchetti, cannoni Oto Melara, mitragliatrici Breda, moto Cagiva. Al Kuwait giungono 4 sistemi antiaerea Skyguard Contraves, mentre ai regimi di Qatar e Oman vengono venduti cannoni Oto Melara per corvette.

         Due anni più tardi i destinatari di armi italiane tornano ad essere per oltre il 58% paesi non membri della Nato. Per vedere superata la soglia del 50% bisogna fare un passo di almeno dieci anni indietro, quando l’industria nazionale viaggiava al quinto posto tra gli esportatori mondiali. Le autorizzazioni ministeriali vedono al primo posto l’Arabia Saudita (761 miliardi), e a seguire la Thailandia (195), il Pakistan (118), l’Indonesia (54), la Cina (17), il Marocco, il Brasile e l’Egitto (8), la Colombia (4), l’Algeria (3). Il 1994 è l’anno di una effimera ripresina dell’export italiano, quanto basta per illudere i mercanti di morte che il mercato internazionale sia in controtendenza. L’industria tuttavia respira: in totale le autorizzazioni nel quadriennio 1991-94 raggiungono il valore di 8.360 miliardi di lire.

       Il 1995 torna ad essere un anno molto negativo per l’industria bellica italiana. Secondo i dati forniti dal governo Dini le ordinazioni scendono dai 2.900 miliardi del 94 ai 1.700 del ‘95, con un calo di circa il 40%. Come sottolinea la relazione: “questo settore continua a dimostrare con i risultati raggiunti, la sostanziale debolezza della sua struttura”. Il dato è ancora più eclatante se si pensa che gran parte del valore totale delle esportazioni è dato dalla vendita di due corvette alla Malaysia  (valore 416 miliardi). Seguono in ordine l’Arabia Saudita (104 miliardi), alcuni Paesi europei (Germania, Francia, Gran Bretagna), la Turchia (76). Contratti minori vengono sottoscritti con Singapore (31), Ecuador (28), Oman (25), Perù (16), Taiwan (14), India (13), Egitto (11) e Cina (5). Anche nel ‘95 il 60% dei contratti interessa paesi non Nato. La relazione fornisce la classifica delle aziende esportatrici: al primo posto la Fincantieri (400 miliardi), poi Finmeccanica (143), l’Agusta (142), l’Oto Melara (128), Fiat Avio (85), l’Italtel (64), Riva Calzoni (59).
   Intanto si assiste all’espansione dell’appoggio finanziario delle principali banche italiane all’esportazione di armi. Negli ultimi tre anni la banca italiana più impegnata in operazioni di appoggio all’export di armi è stata la Banca Commerciale italiana con un giro d’affari di 2.340 miliardi. Subito dopo c’è l’Istituto San Paolo di Torino che ha accumulato operazioni per 1.470 miliardi. Il Credito Italiano figura al terzo posto con quasi 600 miliardi di lire, praticamente alla pari con la Banca Nazionale del Lavoro che superato il ‘disimpegno’ seguito allo scandalo della filiale di Atlanta a metà anni ottanta (export al regime di Saddam Hussein), è tornata apertamente in campo. Solo nel 1995 la Bnl ha effettuato operazioni per 320 miliardi. Esistono poi banche che si sono affacciate da poco in operazioni ‘militari’: la Banca Popolare di Lodi con 590 miliardi di operatività, o la Banca Nazionale dell’Agricoltura con 244 miliardi nel 1995. La Banca di Roma che controlla la Bna è a sua volta direttamente impegnata con quasi 75 miliardi. Dando un’occhiata alla tabella del Consiglio dei ministri sui paesi di destinazione delle operazioni bancarie per le esportazioni di armi per il 1995, si ha una conferma sull’importanza raggiunta da alcuni paesi mediorientali e del sud-est asiatico:  ai primi posti si trovano ancora l’Arabia Saudita (296 miliardi), la Thailandia (205), la Turchia (85), Singapore (67), il Qatar (19), la Malaysia (10). Il totale è di 1.525 miliardi e il 57,1% riguarda operazioni bancarie in Paesi del Sud del mondo.


COME SMANTELLARE  LA LEGGE 185/90  E  VENDERE   CONTENTI

     Contemporaneamente all’espansione delle aree grigie dell’export italiano, nella recente legislatura si sono registrati due tentativi di revisione dei più significativi principi della legislazione vigente, quelli in materia di trasparenza e controlli e quelli che legano l’export al rispetto dei diritti umani. Le prime picconate alla legge 185/90 provengono direttamente dalla Presidenza del consiglio a direzione Carlo Azeglio Ciampi, attuale ministro del Tesoro. Scrive nel 1994 Ciampi nella sua relazione alle Camere: “Se la legge può definirsi decisamente avanzata per i principi politici ed etici che la ispirano presenta, per altro, caratteri di rigidità e complessità nelle procedure, che si sono rivelati in certa misura penalizzanti. Le attività assoggettate all’attuale normativa richiedono misure amministrative più flessibili (...). Dall’analisi delle esportazioni italiane degli ultimi anni sembra emergere che ritardi e difficoltà nella concessione delle autorizzazioni, derivanti dalla complessità delle procedure e dalla particolare cautela con la quale queste sono state applicate, abbiano inciso negativamente”.

    I suggerimenti forniti da Ciampi sono: la “stabilizzazione in rapporto all’evoluzione del Pil dell’impegno finanziario per la difesa”, “l’introduzione di procedure semplificate e di corsie preferenziali”, perfino “la possibilità per le nostre imprese di costituire all’estero magazzini ricambi destinati a fare sollecitamente fronte a richieste provenienti da una determinata area”. Ovvero la possibilità di produrre direttamente all’estero, senza alcun controllo.

     Nello stesso periodo, il Ministero della Difesa approvava con decreto il nuovo elenco dei materiali di armamento che non comprendeva più una serie di prodotti dei settori aeronautico e missilistico considerati a doppio uso civile-militare, i quali passano alla tabella export dei materiali ad alta tecnologia, quindi a uno status meno rigidamente controllato.

      In secondo luogo il governo, rispondendo a una interrogazione parlamentare sulla vendita di aerei militari alle Filippine, precisava che “i divieti di esportazione agli stati in conflitto e agli stati dove sono gravemente violati i diritti umani sono applicati solo quando in sede Onu o di Cooperazione Politica Europea l’Italia abbia dato voto favorevole a una specifica risoluzione”. In pratica l’Italia non applica più i divieti internazionali se non li condivide: un’idea un po' curiosa di legalità internazionale.   
   
         Appena un anno fa (1995) si verifica un fatto estremamente grave nella compilazione da parte del Governo della relazione sulle autorizzazioni per il commercio delle armi: nelle tabelle allegate vengono deliberatamenti omessi i paesi riceventi a fianco dei singoli contratti, rendendo praticamente illeggibili i trasferimenti. Anche nel rapporto per il 1995 non vengono incrociati i dati fra paese importatore ed arma esportata. L’ex sottosegretario agli Esteri Sciammacca, nel rispondere ad una interrogazione parlamentare ha giustificato il fatto con la “necessità di salvaguardare la riservatezza commerciale dell’azienda”. Ancora più scandaloso ciò che si legge nella tabella curata dal Ministero del Commercio con l’estero, relativa all’esportazione di “materiali strategici” per il 1994: il governo italiano ha inventato per l’occasione due nuovi Stati: l’”Antartide” (export per un valore di 32 miliardi di lire) e “Mare Aperto” (93 miliardi).


LA  SUPERCONCENTRAZIONE  DEL  COMPLESSO  MILITARE-INDUSTRIALE


       Per comprendere le ricadute socioeconomiche sul fronte interno dell’export di armi, è opportuno soffermarsi sulle recenti strategie industriali di concentrazione e di ristrutturazione del comparto bellico nazionale.
   
  Artefice del processo di “razionalizzazione dell’industria militare” è stato Fabiano Fabiani, amministratore delegato di Finmeccanica, il quale dopo aver incorporato in una sola holding la Fiat Avio (gruppo Fiat) e l’Alfa Avio (Finmeccanica) per “potenziare e privatizzare” il settore elettromeccanico italiano (prima conseguenza i forti tagli occupazionali a Sud), a fine ‘94 ha fatto acquisire a Finmeccanica le sette società ex Efim del settore militare. Oggi Finmeccanica controlla il 100% del pacchetto azionario di Oto Melara, Breda Meccanica Bresciana, Officine Galileo, Sma, Agusta, Aerospazio difesa Alenia, Ansaldo, Elsag, il 77,5% di Alfa Romeo Avio, il 25,5% di Aermacchi, il 22,6% della Siai Marchetti, e il 30% della Piaggio.  In totale Finmeccanica controlla oltre l’80% dell’industria militare italiana; inoltre possiede anche alcune quote in industrie militari straniere, ad esempio il 6% della società olandese Fokker; le cui notevoli perdite di bilancio accumulate nel solo 1994 hanno pesato su Finmeccanica per oltre 42 miliardi.

     Parallelamente all’accorpamento in Finmeccanica delle aziende ex Efim, Fabiani ha aperto una trattativa speciale con il governo Ciampi per l’allentamento ai vincoli all’export di armi con i risultati che sono noti, ricevendo in regalo l’impegno per 10.000 miliardi in dieci anni in commesse di armi per le imprese ex Efim e per altri 20.000 miliardi per Alenia e le altre imprese maggiori del gruppo.  Ciò nonostante il fatturato delle sette aziende nel primo anno di gestione Finmeccanica è stato di 1.421 miliardi contro i 2.270 previsti dal piano di razionalizzazione ed Agusta e Oto Melara sono state costrette a cercare all’estero partner per i propri programmi industriali. Pesantissimi i tagli occupazionali seguiti al ‘salvataggio’ ex Efim: negli ultimi 4 anni sono stati persi oltre 8.000 posti di lavoro. I costi più alti sono stati pagati dall’Agusta (1.500 dipendenti), dall’Oto Melara (442 lavoratori), dalle Officine Galileo (200 unità).  Infine un dato che avrebbe meritato maggiore attenzione dalle forze politiche e dai ‘risanatori’ dei conti dello Stato a suon di tasse e di tagli alla spesa pubblica: con l’acquisizione delle aziende ex Efim lo Stato si è accollato oltre 18000 miliardi di debiti accumulati nella passata gestione...

           Certamente il caso più grave dal punto di vista della crisi occupazionale riguarda il colosso Alenia, specie dopo la guida di Giorgio Zappa, nome che compare nelle intercettazioni dell’inchiesta della Procura di La Spezia. Dopo essere stato uno dei massimi dirigenti dell’Ilva dove fu definito un “tagliatore di teste” per i suoi piani di ristrutturazione della siderurgia che avevano ridotto i dipendenti dell’Ilva da 55mila a 40mila, Zappa è stato chiamato 4 anni fa all’Alenia. E’ in questo periodo che si sono verificati i tagli più pesanti della manodopera: nel ‘95 i dipendenti sono calati ad appena 21mila unità. Nonostante l’Alenia sia entrata nei consorzi multinazionali per la produzione del caccia AmX, del nuovo caccia Efa, e dell’ aereo da trasporto Fla e nonostante il piano previsto dall’ex ministro dell’industria Alberto Clò per il settore aeronautico (stanziamenti per oltre 3.700 miliardi in 10 anni), Zappa ha presentato ai sindacati un nuovo programma di ristrutturazione dell’azienda che prevede la concentrazione degli impianti in solo tre aree, mentre gli impianti decentrati verranno chiusi o terziarizzati. In conto sono previsti 2400 esuberi, compresi gli 88o dipendenti in cassa integrazione; le aree più colpite saranno quelle del torinese e di Pomigliano d’Arco.

          Non certamente migliore la situazione delle aziende del settore privato. La Rinaldo Piaggio ad esempio, un’azienda di 1.300 dipendenti, metà dei quali in cassa integrazione, versa in una crisi gravissima. Nel 94 il fatturato è sceso da 176 a 107 miliardi, e il futuro non è roseo dopo la stretta creditizia del governo e la messa in forse del progetto di acquisto di alcuni esemplari del P166 da parte del ministero della Difesa e delle capitanerie di porto. Con una posizione da lobbyng la Piaggio era riuscita a inserire nella finanziaria del governo Berlusconi 100 miliardi a favore di Protezione civile, Polizia, carabinieri, GdF e Capitanerie di porto, per l’acquisto dei propri aerei; l’azienda è ancora in attesa dei fondi e da più parti si sono sollevate critiche sulla reale competitività del veivolo Piaggio.

      Ancora più critica la condizione della Franchi di Brescia, una delle aziende più note nella produzione di fucili, il cui salvataggio potrebbe essere segnato in extremis dall’acquisto da parte della  Beretta e dell’americana Remington.

      Fortemente penalizzato il comparto bellico del Mezzogiorno. In Sicilia appare ormai disastrosa la vicenda dell’azienda Alelco srl di Palermo, già Raytheon-Elsi. All’inaugurazione nel 1960 l’azienda produttrice di tubi a microonde per i sistemi radar militari della Nato contava oltre mille addetti. Oggi, dopo varie ristrutturazioni e cambi di proprietà, conta appena 140 addetti, meno di un terzo di quelli di 5 anni fa. Eppure l’azienda di Palermo ha ricevuto l’esclusiva per la produzione di speciale tecnologia per i nuovi missili Idra e per i cacciabombardieri Efa Nato.

       In Calabria è nota a tutti la vicenda dell’industria Oto Breda Sud (Oto Melara e Breda), impiantata a San Ferdinando, nella piana di Gioia Tauro, per la produzione di missili. Previsti 300 addetti, ma a causa della crisi del settore l’azienda non ha mai prodotto nulla e da un anno è passata alla Isotta Fraschini per produrvi, chissà quando, autovetture. Sull’impianto Oto Breda Sud le ombre di una inchiesta della Procura di Palmi che ha richiesto ai giudici spezzini alcuni atti riguardanti il troncone armi del faccendiere Pacini Battaglia.


E  SUI  PROCESSI  DI  RISTRUTTURAZIONE  PIOVONO  INCHIESTE

       
    Anche la vicenda relativa alla liquidazione dell’Efim è stata oggetto di una inchiesta giudiziaria. Il commissario liquidatore dell’Efim Alberto Predieri ha segnalato infatti nel 1994 alla Procura di Milano 76 dirigenti del gruppo e promosso azioni di responsabilità verso 33 amministratori Efim, perché il bilancio del 1991, in rosso per 1600 miliardi, avrebbe occultato perdite ancora maggiori, nascoste dal trasferimento di quattro società dalla Finbreda alla Sistemi e spazio.

        Il Pool di Milano ha svolto anche un’inchiesta sulle tangenti versate da alcune aziende del gruppo Efim, durante la quale è stato rivelato da alcuni imputati il sistema di pressioni che i partiti esercitavano sulla holding Ha riferito l’ex presidente Efim Rolando Valiani: “Per l’Agusta di area Psi, fu Giuliano Amato a raccomandarmi il presidente Raffaello Teti. (...). Le forniture militari erano gestite direttamente dall’Oto Melara con la Difesa. L’uomo di maggior riferimento era l’ingegnere Umberto Marino, DC” (la Repubblica 2-3-94).  Lo scorso dicembre i giudici hanno chiesto il rinvio a giudizio per i vertici dell’Agusta (Roberto D’Alessandro, Francesco Fusco e Giorgio Reggio) e per il finanziere socialista Mauro Giallombardo per una presunta tangente di 2 miliardi e mezzo pagata al Psi per indurre la commissione ministeriale ad avallare, nell’ambito del potenziamento delle forze di polizia, lo stanziamento di 8oo miliardi per l’acquisto di elicotteri (Gazzetta del Sud 28-12-95). Sempre l’Agusta è l’azienda al centro dello scandalo che ha colpito il precedente governo del Belgio, quello delle tangenti versate ai socialisti valloni per l’acquisto di elicotteri per le forze armate belghe.

         Anche Fabiano Fabiani, presidente di Finmeccanica, insieme ad alcuni ex ambasciatori ed ex ufficiali è stato rinviato a giudizio  nel giugno 94 per falso in bilancio. Al centro dell’inchiesta i compensi per svariati milioni assegnati da Finmeccanica ad alcuni diplomatici, all’ex ammiraglio Giasone Piccioni, ai generali Ciro Di Martino e Luigi Stefani per consulenze che non sarebbero mai state effettuate.

     Quello della presenza di alti ufficiali in pensione delle Forze Armate nei consigli di amministrazione o tra i ‘consulenti’ delle industrie belliche è da sempre un’anomalia italiana. Il caso più recente è la nomina dell’ex capo di stato maggiore dell’Aeronautica Basilio Cottone a Presidente del gruppo elicotteristico Agusta. In passato aveva fatto scalpore il passaggio da Segretario generale della Difesa e Direttore Nazionale degli Armamenti a vicepresidente della Oto-Melara di Giuseppe Piovano, appena qualche giorno dopo il pensionamento. Ciò non può che incidere direttamente sulla dipendenza, fuori da qualsiasi concorrenzialità di mercato, del comparto industriale-militare dalla spesa pubblica per l’acquisto di sistemi d’armamento. La mancanza di programmazione, il sistema caratterizzato dall’acquisto incondizionato di quanto prodotto e dalla offerta che regola la domanda, portano come conseguenza alla dilatazione del bilancio della Difesa.

        Il rapporto curato dal cartello Venti di pace del movimento pacifista italiano ha denunciato sulla base del bilancio di previsione per il 1994, la crescita della spesa per tre grandi programmi militari in via di conclusione: il caccia Amx, l’elicottero EH-101 e il sistema di comunicazione Catrin. Per il programma AmX non bastano più i 470 miliardi stanziati inizialmente: le spese da sostenere arrivano ora a 1038 miliardi. L’elicottero Agusta EH-101 non costa più i 300 miliardi previsti: fino al ‘94, il conto della spesa è salito a 702,8 miliardi. Il costo del programma Catrin dai 226 miliardi iniziali è salito a 917. Nel complesso per i tre programmi di ricerca, sviluppo e produzione erano previsti finanziamenti per 996 miliardi, mentre ora ne costano 2658. La conclusione dei programmi era prevista per il 1991 ma alla data odierna i sistemi non sono stati ancora completati.

P.S.  Le ultime novità dell’export ‘96. L’Eritrea, paese africano che ha conseguito l’indipendenza nel ‘93 ha ordinato 6 aerei MB.339 dell’Aermacchi, che saranno consegnati nel secondo semestre di quest’anno. L’Mb.339 permetterà di preparare i piloti ai futuri aerei da combattimento.

        La Fiar ha concluso il 1995 con un fatturato di 131 miliardi (contro 160 dell’anno precedente) e una perdita di 10,3 miliardi (contro un attivo di 5 miliardi del 1994). Gli ordini sono comunque aumentati da 107 a 147 miliardi: fra i contratti più interessanti, la fornitura di Grifo-L per il caccia ceco L-159 e i GrifoM3 per i Mirage III pachistani. Inoltre la Fiar è impegnata in Brasile per la produzione del radar Scipio per l’AmX (una settantina di esemplari) e nella gara per gli equipaggiamenti avionici dell’ALX (il programma riguarda un centinaio di velivoli per la ‘difesa’ dell’Amazzonia). Crescente l’interesse per altri paesi sudamericani (Argentina, Colombia e Cile). Sempre per ciò che riguarda il Cile, dove si è svolta nel marzo ‘96 la Fidae, la Fiera Internazionale dell’Aria e dello Spazio, Alenia, Agusta e Otobreda, sperano d’inseririsi nell’export di sistemi radar, elicotteri A.109 Mk 2,artiglierie navali e terrestri e i M113 surplus dell’Esercito italiano. Da notare che alla Fidae 96 era presente come rappresentante dell’industria di Stato il generale Franco Angioni, Segretario Generale e Direttore Nazionale degli Armamenti (citato nelle famose intercettazioni Pacini-Danesi - Panorama Difesa maggio 1996).

Relazione presentata l' 1 ottobre 1996 all'incontro  “Mercanti di morte. Da Arzente Isola all’inchiesta sui traffici internazionali di armi di La Spezia organizzato a Messina dal Comitato per la pace e il disarmo unilaterale e dal Gruppo Italia 51 di Amnesty International.

Commenti

  1. fa impressione. quest'anno mi sembra anche che siamo entrati nei top 7.. uhm..
    saluti

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